Le sirene

Ci sono diverse versioni sull'origine delle sirene;secondo la mitologia greca erano figlie di Acheloo,dio fluviale; infatti si dice che le sirene siano nate da tre gocce del sangue di Acheloo (cadute a terra quando durante una battaglia Eracle gli spezzo' un corno) e poi partorite da Sterope.
La maternita' delle sirene, però, viene attribuita da alcuni a Sterope,da altri a Calliope.
Le sirene erano dette anche Nereidi perche' secondo le credenze popolari si dice fossero figlie di Nereus e delle Oceanine. Le sirene erano anche legate alla morte in quanto legate a Persefone: originariamente infatti, erano le fanciulle con le quali Persefone danzava nella pianura di Enna il giorno in cui Ade la rapì. Esse sarebbero state trasformate in creature repellenti da Demetra che così volle punirle per non aver aiutato la figlia. Secondo altri, siccome le sirene disprezzavano i piaceri dell'amore, Afrodite le puni' privandole della bellezza. Secondo Ovidio le sirene chiesero agli dei di essere dotate di ali per cercare una compagna che era stata rapita da Plutone.
All'inizio le sirene non avevano la coda di pesce, ma avevano la testa femminile e il corpo di uccello con grandi artigli e seni pronunciati. Col tempo svaniscono le sembianze di uccello e compaiono le braccia e la coda di pesce.
Le sirene hanno comunque l'aspetto di bellissime fanciulle e vivono nelle profondita' degli oceani.
Nonostante siano bellissime creature, le sirene sono perfide ammaliatrici;sedute su rupi sporgenti con uno specchio in una mano e un pettine nell'altra, pettinano le loro chiome lucenti,cantando con una voce melodiosa e danzando sulle onde.
Il canto delle sirene e' irresistibile, perche' ha il potere di ammaliare i marinai e tutti i naviganti,costringendoli a spingersi con le loro navi verso gli scogli per farli naufragare,quindi ucciderli e divorarli.
Oppure li portavano nelle profondita' degli abissi dando loro la possibilita' di respirare nell'acqua e di vivere con immense ricchezze; ma se poi non venivano ricambiate li uccidevano.
Altri miti raccontano la fine dele sirene: secondo un'antica profezia esse avrebbero divuto suicidarsi gettandosi in mare qualora una nave fosse passata indenne accanto alla loro isola. riuscì nell'impresa Giasone, durante il viaggio di ritorno con gli argonauti perchè Orfeo coprì con il suono della sua lira il canto delle ammaliatrici. dopo il passaggio di Odisseo si diedero la morte e il corpo di una di esse, Partenope, fu portato dalla corrente nel golfo di Napoli, dove fu sepolta e immortalata nel nome antico della città.


OD, XII 145-200
Lasciando al timonier la cura e al vento.
Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,
Degno mi par che a tutti voi sia conto
Quel che predisse a me l'inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all'albero legate
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi ed i lacci".
Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle Sirene all'isola pervenne.
Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,
E l'onde assonnò un demone. I compagni
Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella nave collocarle: quindi
Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde
Co' forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n'iva
Rivoltando e premendo in fra le dita.
Né a scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché lucidissimi dall'alto
Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.
De' compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all'albero legaro
Con fune, i piè stringendomi e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.
Già, vogando di forza, eravam quanto
Corre un grido dell'uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de' remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:
"O molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa che noi
Dalle labbra mandiam, voce soave;
Voce, che innonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia
Per celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".
Cosi cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sé la cera dall'orecchio tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.

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